Oralità Narrativa, Cultura Popolare e Arte: Grazia Deledda incontra Dario Fo

Convegno a cura della Professoressa Cristina Lavinio

Lunedì 10 dicembre
15,30 Saluti istituzionali e presentazione del convegno

Pietro Clemente, Convergenze parallele: due Nobel e la cultura popolare. Giochi di somiglianze e differenze dentro storie culturali diverse.
Angela Guiso, Un grido nella notte e Il vecchio Moisè: un vecchio racconta.
Descrizione del modo tenuto da Grazia Deledda nella rappresentazione di un motivo-chiave delle sue novelle.
Dino Manca, Tra due sistemi linguistici culturali: oralità e scrittura, mimèsi e diegèsi nella narrativa della Deledda.
Maria Elvira Ciusa, Il visibile narrare in Deledda e Biasi
Luciano Marrocu, Grazia Deledda romana
Paola Pittalis, Deledda: “l’irresistibile miraggio del mondo”. Nuovi punti di vista.
Cristina Lavinio, “Era un silenzio che ascoltava”: Grazia Deledda tra leggende e fiabe.

ore 20,00 Performance AFFABULANDO CON GRAZIA, di e con Mario Pirovano

Martedì 11 – dalle 8,30  

Felice Tiragallo, Novembre 1973: Mistero buffo a Cagliari
Paolo Puppa, Fo: dalla recita al racconto
Rossana Brusegan, Dario Fo attore autore. Tradizioni orali alle origini del “teatro del popolo”
Simone Soriani, Mistero Buffo tra immaginario grottesco e performance giullaresca
Pietro Trifone, La ricerca linguistica di Dario Fo
Stefania Stefanelli, Dario Fo nella storia linguistica italiana del secondo dopoguerra
Maria Teresa Pizza, L’arte come impegno. L’antico gioco del teatro nella macchina scenica di Dario Fo e Franca Rame

ore 12,00 Performance Matti per un giorno, di e con Paolo Puppa

Abstract 
(autori in ordine alfabetico)

Rosanna Brusegan
Dario Fo attore autore. Tradizioni orali alle origini del “teatro del popolo”.

Il rapporto di Dario Fo con l’oralità ha il suo fulcro nel dialetto, che gli fornisce durante gli anni dell’adolescenza trascorsa sulle rive del lago Maggiore (narrata nell’autobiografia Il paese dei Mezaràt, Feltrinelli, 2002) uno strumento dalle risorse inesauribili per attingere negli strati più profondi della realtà. Nel manifesto della sua poetica drammaturgica Manuale minimo dell’attore (Einaudi, 1987) ricorre il termine “primordiale”, spia dell’approccio mitizzante di Fo alla tradizione orale, in particolare dei cantastorie e degli affabulatori del lago, soffiatori del vetro di Luino e Porto Valtravaglia, da cui trarrà materia e forme, da reinterpretare e reinventare attraverso la creazione di una mescidanza linguistica di gerghi, lingue e dialetti (grammelot), contaminate con fonti scritte. Un certo romanticismo è il frutto anche del suo gusto per le narrazioni di storie del “pesce d’oro” e di “paesi incantati verdi di muschio, sepolti sotto le acque del lago”, udite durante l’infanzia (Fo-Garambois, Einaudi, 1976) e rimaste impresse nel ricordo. Questo retroterra biografico spiega in parte la sua vena favolistica, fantastica e grottesca, che si esprime talvolta in un originale lirismo comico (La favola dei tre desideri, La Parpàja tòpola). Il ritorno alle origini della cultura del popolo diventa presto lavoro di ricerca, condotto durante una vita insieme a Franca Rame, nel campo delle tradizioni popolari e della letteratura giullaresca medievale alla ricerca di prove dell’origine elevata della poesia del popolo. Con il riconosciuto isomorfismo tra la poesia dei giullari e la tradizione orale popolare, Dario Fo «riattiva» un patrimonio culturale che, attualizzato alla luce della contemporaneità, legittima al più alto livello la sua operazione drammaturgica e ideologica di attore autore, “giullare del popolo” premio Nobel 1997.

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Maria Elvira Ciusa
Il visibile narrare in Deledda e Biasi

È noto l’interesse di Grazia Deledda  per il mondo delle arti figurative  e il desiderio manifestato sin dagli esordi che i suoi racconti e romanzi venissero illustrati, ben consapevole sin d’allora  dell’importanza dell’immagine per la diffusione e conoscenza della sua opera. Molti artisti, che raggiunsero chiara fama nel corso del Novecento,  collaborarono  con la scrittrice  nell’ illustrare le sue opere. Tra questi Michele e Tommaso Cascella, Aleardo Terzi, Renato  Salvadori,  Aligi Sassu e i suoi conterranei  Giacinto Satta, Antonio Ballero, Mario Mossa de Murtas e soprattutto Giuseppe Biasi, verso il quale la Deledda nutrì una particolare stima. Nel 1909 così gli scriveva : «Queste sue illustrazioni , come del resto tutte le cose sue, mi fanno una grande impressione: più di ammirarle io le sento, e mi sembrano perfette, per l’animo, per il colore locale che le rende vive e palpitanti». La collaborazione con Biasi andò avanti nel tempo sino  all’ interpretazione per immagini del romanzo L’incendio nell’oliveto, dove l’artista sassarese in quaranta tempere, dal segno incisivo fatto di luci e ombre, riuscì mirabilmente ad interpretare  il mondo arcaico e in disfacimento della matriarca Agostina Marini ,vero perno intorno a cui ruota la storia di una piccola comunità familiare sullo sfondo del primo conflitto mondiale .

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Pietro Clemente
Convergenze parallele:  due Nobel e la cultura popolare.
Giochi di somiglianze e differenze dentro storie culturali diverse.

 

Distanti nel tempo e nello spazio i due premi Nobel comparati sono occasione per evidenziare somiglianze e differenze che evidenziano stili, modi di ispirazione, dialoghi con le culture locali che infine ci dicono qualcosa di interessante sul mondo letterario e teatrale e sulla cultura Italiana.

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Angela Guiso
Un grido nella notte e Il vecchio Moisè: un vecchio racconta. Descrizione del modo tenuto da Grazia Deledda nella rappresentazione di un motivo-chiave delle sue novelle.

Le due novelle (Un grido nella notte, in Chiaroscuro, 1912; Il vecchio Moisè, in Il dono di Natale, 1930) sono state scelte con particolare attenzione al tempo della scrittura e alle raccolte in cui sono iscritte. L’ipotesi di partenza è di verificarne le analogie e differenze, o la parziale diversificazione dell’intreccio, a parità di motivo dominante: il racconto di un vecchio, a prescindere dal suo ruolo sociale. Inoltre, di provare, attraverso altri esempi, coerenti persistenze tematiche nella novellistica e nei romanzi deleddiani.

Le novelle paiono confermare l’interesse verso un lontano apprendistato i cui momenti sono, anche qui, rievocati come luoghi narrativi formalizzati nella loro dimensione cronotopica. Ecco, a mo’ d’esempio minimo, in Un grido nella notte il narratore di primo grado farsi narratario come Grassiedd’Elé, nome di una giovanissima Grazia Deledda ancora dentro le strade e le mura nuoresi. Ma entrambe le novelle riferiscono anche situazioni rituali di racconto, proposti nelle “forme semplici” di Jolles: una storia di magia è Un grido nella notte, una parabola (in prevalenza) Il vecchio Moisè.

Un altro obiettivo sincrono del presente studio è di evidenziare, stante la lontananza della loro scrittura, l’eventuale mutamento di scelte linguistiche e stilistiche, e individuare la presenza di inserti della lingua sarda, di calchi, e del loro uso, con eventuale intento mimetico ed espressivo, soprattutto se inerenti al narratore di secondo grado. Dietro i due testi si raccoglie, infatti, l’eco di un immaginario popolare, innervato di storie favolose, raccontate dai servi di casa a bambini e adulti nell’obiettivo di delectāre et docēre per confermare e rafforzare i valori etici e culturali di una società coesa.

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Cristina Lavinio
“Era un silenzio che ascoltava”: Grazia Deledda tra leggende e fiabe.

Nell’apprendistato di Grazia Deledda grande peso ha avuto, come lei stessa ha sempre dichiarato, la narrativa orale tradizionale. Il suo gusto dell’ascoltare racconti si è poi rafforzato grazie al lavoro, scientifico e sistematico, sollecitatole da De Gubernatis, di ricerca sulle tradizioni popolari tutte. Deledda ha poi scritto (o riscritto) lei stessa leggende e fiabe, dichiarando di preferire le prime perché più legate ai luoghi e dunque più atte a rappresentare la specificità di ambienti che le premeva descrivere e far conoscere ai lettori esterni all’isola, cui fin dall’inizio guardava. Può essere interessante esaminare le leggende e fiabe da lei (ri)scritte, ma è anche interessante tenere presente che, dall’insieme della narrativa deleddiana, emerge un ampio inventario dei contesti narrativi in cui, nel mondo tradizionale sardo (e non solo) dell’epoca, i racconti “venivano a cadenza”, diversi per generi e per tipi di narratori. Inoltre, in vari romanzi di Deledda, i racconti prodotti da questo o quel personaggio occupano un posto centrale e/o sono in continuità isotopica e simbolica con la vicenda narrata (esemplare ad esempio la storia della grassazione narrata dalla serva Fidele a Marianna bambina in Marianna Sirca). Le suggestioni ricavate dai racconti orali entrano in profondità nell’architettura di alcuni romanzi non solo per gli stilemi (come cammina cammina, e va e va) che punteggiano il racconto, non solo per i richiami espliciti e frequenti a fiabe e leggende (numerose anche le occorrenze dell’aggettivo leggendario), ma per la stessa successione delle funzioni narrative individuabili in racconti dove, in particolare, ci si allontana da casa e si viaggia alla ricerca di qualcosa, si attraversano luoghi paurosi pieni di insidie e si incontrano veri o falsi aiutanti magici. Però, contrariamente a quanto accade nelle fiabe, ampio spazio hanno le descrizioni dei luoghi attraversati e, soprattutto, raramente le vicende narrate si chiudono con la proppiana funzione Nozze (cioè con il lieto fine): emblematico in tal senso è il romanzo L’edera, che si chiude con le nozze di Annesa e Paulu, ma solo dopo che il delitto di Annesa li ha separati per decenni, tanto che il matrimonio tra i due è una prosecuzione dell’espiazione con cui Annesa ha punito se stessa.

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Dino Manca
Tra due sistemi linguistici e culturali: oralità e scrittura, mimèsi e diegèsi nella narrativa della Deledda.

Una delle questioni principali che la Deledda più avvertita e consapevole dovette affrontare da un punto di vista narrativo fu come far coesistere letterariamente cultura osservata, delle origini (agro-pastorale, orale, sardofona) e cultura osservante, di «inappartenenza» (urbana, scritta, italiana, europea), come costruire un narratore capace di raccogliere lo straordinario bagaglio conoscitivo di un autore implicito figlio di quel mondo e profondo conoscitore dei suoi codici. Un narratore che, ponendosi a una distanza minima dall’universo rappresentato, sapesse nel contempo raccontare l’anima e il vissuto della sua gente a un pubblico d’oltremare. Una completa estraneità linguistica, culturale e morale rispetto al mondo narrato avrebbe, infatti, reso inautentica e soprattutto incomprensibile la sua operazione letteraria. Anche per questo, per accrescere la naturalezza della resa ambientale, l’autrice attinse dal ricco giacimento etnolinguistico, intraprendendo la difficile strada del mistilinguismo, della mescidanza e dell’ibridismo; opzioni certamente più adeguate e rispondenti alla messa in scena di un microcosmo sardofono. Perciò ella innestò sul tronco della lingua di derivazione toscana elementi autoctoni (calchi, sardismi, soluzioni bilingui), procedimenti formali della colloquialità e termini pescati dal contingente lessicale della lingua sarda; per corrispondere all’intento mimetico di traducere, trasportare, un universo antropologico fortemente connotato dentro un sistema linguistico allotrio; o viceversa, per modellare o rimodulare il codice letterario di riferimento (quello della tradizione letteraria italiana scritta) su un sostrato linguistico altro, per secoli dell’oralità primaria e principale veicolo di comunicazione del tessuto semiotico e dei saperi della comunità rappresentata letterariamente.

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Luciano Marrocu
Grazia Deledda romana

Tutto fa pensare che per la giovane Grazia Deledda Roma non sia solo la ‘Gerusalemme dell’arte’  ma, in una chiave più personale, l’approdo designato di una fuga, la fuga da Nuoro. Il viaggio cagliaritano del 1899 si presenta allora come lo strumento attraverso cui la fuga si compie, in modi e con tempi solo in parte casuali. Il tutto può essere raccontato come un blitz in tre tempi: il primo tempo è il viaggio a  Cagliari, scelta come luogo di una fuga parziale e provvisoria e poi, quasi immediatamente, individuata come il punto da cui spiccare il volo; il secondo  si consuma nell’incontro e nel matrimonio lampo con Madesani;  il terzo tempo è quello del trasferimento a Roma, non da scrittrice ma da moglie verrebbe da dire se non si avesse il sospetto che in tutto questo ci sia l’astuzia della scrittrice che si traveste da moglie per realizzare il suo obiettivo. I tre momenti -questo è il punto- sono strettamente legati l’uno all’altro: non ci sarebbe Madesani, senza Cagliari, non ci sarebbe Roma senza Madesani.
Roma, per la giovane signora Madesani, o meglio Deledda- Madesani, è all’inizio prima di tutto il da sempre sognato essere-lontano-da-Nuoro. Solo nel giro di qualche anno -ma forse meno- Roma diventerà per Grazia una sorprendente nuova  Roma letteraria, insieme alla quale crescerà  e della quale  si troverà ad essere una delle protagoniste.

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Paola Pittalis
Deledda: “l’irresistibile miraggio del mondo”. Nuovi punti di vista. 

La “scoperta” di nuovi materiali narrativi e la pluralità di approcci degli ultimi anni trasmettono di Deledda un’immagine di insospettata ricchezza, con la quale occorre misurarsi.
Anzitutto è importante affrontare il “nodo Deledda”, cioè il suo rapporto con il canone letterario tradizionale, che ha privilegiato gli scrittori rispetto alle scrittrici. Occorre muoversi in una prospettiva “oltre canone”: accanto ai padri (Calvino, Moravia, Pasolini) ci sono le madri (a partire da Deledda, Morante, Ortese) .
Si parte dalla riflessione sulla “funzione Deledda” nella letteratura sarda. Nuoro è la frontiera fra oralità e scrittura (Deledda è immersa in una cultura orale antichissima, mentre Fo alla cultura orale arriva per scelta); c’è un filo che da lei, attraverso Maccioni e Giacobbe (una genealogia femminile) compone un itinerario che va dall’Unità all’Autonomia regionale. In Sardegna si attiva un processo di sviluppo della produzione narrativa in cui il romanzo deleddiano diventa modello per altri scrittori.
Nella letteratura italiana la “funzione Deledda” può essere declinata in vario modo. Anzitutto, proprio perché si forma in una cultura di grande originalità, Deledda è una straordinaria raccontatrice di storie che rimane immune dalle mode letterarie del primo novecento (estetismo, psicologismo, sociologismo): in questo senso è un “classico”.
Poi ci sono i contributi innovativi portati da Deledda alla letteratura italiana: la figura della “scrittrice”, che il Nobel del 1926 ha “sdoganato” e imposto all’attenzione non solo degli intellettuali (“scrittrici” saranno poi Morante, Ortese e altre); e la lingua materna. Infatti Deledda iscrive la Sardegna nell’orizzonte culturale non solo italiano anche attraverso la lingua materna (presente nei romanzi con poesie, modi di dire, proverbi), collocata accanto alla lingua nazionale. Deledda scrive da una frontiera, è una scrittrice dell’alterità, esprime una “cultura della migrazione”, a noi oggi così contemporanea.

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Maria Teresa Pizza
L’arte come impegno. L’antico gioco del teatro nella macchina scenica Dario Fo Franca Rame

Lo sviluppo possibile di conoscenza oggi risiede nell’incontro tra arte e vita quotidiana. La capacità di immaginare il futuro si gioca nel confronto con i linguaggi dell’arte. Questa è una delle lezioni del lavoro di Dario Fo e Franca Rame.

Autore, scrittore, pittore, regista, uomo totale di teatro e di arte, Dario Fo, premio Nobel per la Letteratura nel 1997, è stato sempre politicamente impegnato. Ha vissuto i suoi straordinari novant’anni a cavallo di due secoli, accompagnando la storia d’Italia fino a oggi, con la dolcezza e il disinteresse di chi lavora “per l’eternità”, ma con la precisione attiva e incisiva di chi partecipa quotidianamente alla storia del proprio Paese. Ha svelato il carattere profondamente umano e politico della cultura popolare italiana ed europea con la raffinatezza geniale dello storico, la vitalità conoscitiva dell’antropologo, con l’ironia divina del grandissimo comico.

Per una vita, Franca ed io abbiamo montato e recitato migliaia di spettacoli in teatri, fabbriche occupate, Università in lotta, perfino in chiese sconsacrate, in carceri, in piazza, col sole e la pioggia, sempre insieme. Raccontavamo le storie del nostro tempo giocate con un’astuzia particolare, parlavamo del Medioevo ma trattavamo dell’oggi per un teatro di satira. Il teatro è finzione del reale che sa diventare verità e dramma. Lo spettacolo era l’apertura totale al diritto di pensare: la libertà. Quando senti che il pubblico ci sta, come si dice in gergo dei teatranti, e ti ascolta e ti ammira e ti fa piacere, non giocare mai ad approfittare della sua commozione e soprattutto tu non devi mai arrivare a scoprire la tua commozione se ne hai, troncala, falla diventare secca, distruggi ogni lasciarsi andar cantando. Guai a chi canta mentre recita: deve raccontare.Importante lo studio per esplorare criticamente il mondo. La cosa che bisogna andare a cercareper bene e studiare è la conoscenza. (Dario Fo, Roma, 2014)

Dario non ha mai separato l’arte dalla vita e dal suo amore per Franca Rame che anche negli ultimi anni ha accompagnato il suo lavoro nelle metamorfosi di un femminile immaginato da Fo come inesauribile fonte di intelligenza e forza critica. Nella presentazione della autobiografia di Franca Rame Una vita all’improvvisa Dario Fo scrive: «Abbiamo vissuto insieme, per tanto tempo, una quantità di storie che in dieci libri non si possono ricordare». Le trasfigurazioni dei personaggi femminili nel teatro del premio Nobel sono da ripercorrere, ma sono i mille volti di Franca a incarnare una costante immaginazione: la volontà operosa di un futuro migliore che solo il teatro sa
ancora raccontare.

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Paolo Puppa
Fo e i suoi figli: il teatro di narrazione.

Prendendo lo spunto dai monologhi più celebri e rappresentativi, Mistero Buffo (1969), Storie della tigre e altre storie (1980) e Johan Padan a la descoverta de le Americhe (1991), chiudendosi coll’epopea del Paese dei mezaràt (2002), l’intervento individua alcuni aspetti poi sviluppati nel filone dilagante alla fine del secondo millennio, ovvero il teatro di narrazione: la Storia colla esse maiuscola intrecciata con storie minori e biografie private; il passato segnato da catastrofi e il loro riattraversamento in una strategia omeopatica, perché non si ripetano; la fiducia nella discorsività didattica e nello statuto comunicativo, contro la deriva autoreferenziale della scena di ricerca, il filone notturno caratterizzato dal delirio soggettivo e dalla denarrativazione proprio della linea Carmelo Bene, e dei suoi emuli, per lo più di area meridionale.

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Simone Soriani
Mistero buffo tra immaginario grottesco e performance giullaresca

Fin dagli inizi della sua carriera di autore e attore negli anni ’50, Dario Fo riconosce la propria fascinazione per la cultura popolare: dal teatro di Varietà e di rivista del primo Novecento alla Commedia dell’Arte. Nel corso degli anni ’60, poi, Fo approfondisce la conoscenza della spettacolarità giullaresca e della cultura carnevalesca tra Medioevo ed Età Moderna: è soprattutto con Mistero Buffo (1969) che l’autore-attore milanese mette in scena rari o sconosciuti canovacci della tradizione popolare, senza la pretesa di un’attendibilità filologica ma con la capacità di recuperare un immaginario coerente e niente affatto infondato (benché riattualizzato e caricato di significati politici dichiaratamente oppositivi al Potere). Parallelamente, il recupero dell’immaginario carnevalesco si traduce nell’elaborazione di una modalità scenico-performativa che ambisce a riproporre le dinamiche dell’affabulazione giullaresca, per cui un attore solo sulla scena rievoca fatti e vicende per mezzo del racconto (e non della tradizionale mimesi drammatica), eventualmente raffigurando i vari personaggi del plot attraverso maschere vocali e posture allusive. Si tratta di una modalità scenica che – a partire dal modello di Fo – si è ormai affermata nella prassi teatrale italiana degli ultimi 30 anni, in particolare riferimento ai cosiddetti “teatri della narrazione” dei vari Marco Paolini, Ascanio Celestini, ecc.

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Stefania Stefanelli
Dario Fo nella storia linguistica italiana del secondo dopoguerra

La ricerca di un linguaggio teatrale efficace rivolto verso la nuova società che si stava creando in Italia nel secondo dopoguerra, nel quadro di una situazione linguistica e sociale complessa e in movimento che metteva alla prova la capacità del teatro di comunicare e coinvolgere, è la cifra caratterizzante l’opera di Dario Fo. Fino dalle sue prime rappresentazioni negli anni Cinquanta, Fo ha voluto legare i contenuti di polemica sociale alla adozione di un italiano popolare di area lombarda. Successivamente, il dialetto è diventato per lui, estraneo a ogni velleità veristica, il terreno per una reinvenzione fantastica sorretta dalla mimica e dalla gestualità, sfociata nel grammelot. In questo modo, ha richiamato al presente il passato dialettale del nostro paese proprio quando sembrava che venisse rimosso dalle scene teatrali.

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Felice Tiragallo
Novembre 1973: Mistero buffo a Cagliari

Il 10 novembre 1973 Dario Fo e la sua compagnia “La Comune” arrivano a Cagliari, dopo il clamoroso arresto subito da Fo a Sassari, per rappresentare al Teatro Massimo “Guerra di popolo in Cile” e, il giorno dopo, sulle scalinate della Facoltà di Lettere e Filosofia, “Mistero Buffo”. Quell’evento teatrale rimane ancora oggi, per chi vi partecipò, un riferimento fondativo della memoria e della formazione politica e culturale.

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Pietro Trifone
La ricerca linguistica di Dario Fo

Nel teatro contemporaneo si assiste a un forte sviluppo dell’antirealismo e alla connessa rinuncia alla naturalezza linguistica. A partire dalla seconda metà del Novecento, la crescente diffusione dell’italiano, la fortuna dell’italiano regionale nel parlato corrente, la persistenza dei dialetti in ambito locale, i connessi ricorrenti fenomeni di code switching e code mixing, lo straordinario proliferare di gerghi e linguaggi speciali, favoriscono la ripresa in una chiave moderna del plurilinguismo scenico. L’operazione avviene nel segno di un’idea dello spettacolo tipica della cultura novecentesca, che tende ad attribuire un valore positivo alla contaminazione, e si fa attrarre dalle espressioni creative dell’inautentico. Uno dei vertici assoluti dell’inautentico a teatro è costituito dal grammelot di Dario Fo, che riprende le sonorità, l’intonazione e le cadenze di una lingua o di un dialetto senza associarle a parole e frasi reali. La manipolazione e la deformazione del linguaggio è peraltro un tipico modus operandi di Fo, in perfetta sintonia con gli intenti ludici e al tempo stesso demistificanti perseguiti dall’artista. Si spiega così, per esempio, il gusto di fare il verso ai pretenziosi idiomi per iniziati: la parodia di Fo colpisce l’ingiustificata e velleitaria esibizione di pomposi tecnicismi, usati come colpi di grancassa per coprire la mediocrità o, peggio, i secondi fini del discorso.